La proposta per la riapertura delle scuole sarebbe l’alternanza didattica in presenza/anti-didattica a distanza. Una sorta di classe mista: metà in presenza e metà connessa da remoto.
Questa è la straordinaria soluzione a cui Ministero, esperti, comitati sono infine giunti: tenere cinque ore metà classe davanti al pc.
Una domanda semplice semplice che magari sarà sfuggita a queste menti illuminate: ma chi sarà accanto a questi bambini durante le cinque ore in cui saranno connessi da casa? I genitori? Non credo, perché che lavorino smart o non smart, devono appunto lavorare. I nonni? La famosa categoria fragile che fino a ieri abbiamo cercato di proteggere non esponendola a rischi inutili? I nonni anch’essi smart? E chi i nonni non ce li ha? La vicina di casa? La baby-sitter?
Un’altra domanda semplice semplice che magari sarà sfuggita: esattamente come farà il docente a fare lezione usando due didattiche completamente diverse, una vera in presenza e una non-didattica a distanza? Ma qualcuna di queste menti illuminate ha messo mai piede in una scuola primaria? Ha mai fatto lezione davanti e in mezzo a dei bambini che devono imparare tutto da zero, anche come tenere in mano correttamente una matita? Ha mai contato il numero di volte che un bambino chiede spiegazioni o conferme al proprio lavoro? Ha mai toccato con mano l’importanza di uno sguardo al momento giusto, di un sorriso, di un silenzio ? Questo miracolo accade solo in presenza. In questo modo non farà più lezione nessuno: né quelli che saranno presenti, né tantomeno gli alunni stessi messi a pascolare davanti al pc e privati del contatto diretto con l’insegnante e delle interazioni tra pari.
Un’ultima domanda semplice semplice: ma avete idea di quale sia il range di attenzione di un bambino così piccolo? Ma davvero credete che un bambino possa mantenere la propria concentrazione, la propria curiosità, la propria motivazione tenuto davanti a un pc per cinque ore, vedendo allo stesso tempo i compagni dall’altra parte dello schermo interagire? Avete idea del livello di frustrazione che vivranno queste creature?
Come si fanno esattamente attività laboratoriali a distanza, dato che la vera didattica in una scuola primaria deve essere laboratoriale? Come la guido la mano di un bambino di prima elementare sul quaderno se il bambino è oltre lo schermo di un pc?
Nel momento in cui decidete di farci rientrare a scuola ci state automaticamente dicendo che le condizioni igienico-sanitarie lo consentono; le condizioni logistiche, al contrario, non consentono il rientro di tutti. Per i soliti motivi storici: le classi sono troppo numerose, il personale troppo poco, le scuole troppo vecchie e anguste.
Bene, avete quattro mesi, quattro dannati mesi, per trovare spazi da riconvertire in scuole e implementare un sistema di trasporti adeguato. Quattro mesi! E l’unica soluzione a cui sapete pensare è fare scuola a metà? Ma non vi vergognate? A scaricare il peso della vostra totale incapacità tutto e sempre sulle spalle delle famiglie, dei docenti e dei bambini?
Questo è il colpo definitivo e mortale, perché chi finora ha salvato la scuola, e cioè i docenti e famiglie , saranno travolti dal peso di questa didattica zoppa, massacrante, ingorgata, finta e controproducente. Non serve un computer per far illuminare gli occhi di un bambino, non serve la LIM, non serve il coding, non serve il POF, il PTOF, il RAV, serve soltanto quel bambino, quella piccola anima desiderosa di aprirsi al mondo, una stanza e un insegnante tutto per loro.
Pietro De Angelis – Docente

Qui è in gioco un modello di scuola – di Pietro De Angelis
“Dividiamo pure il problema che abbiamo di fronte, la proposta di un rientro a scuola con una doppia didattica, alternando metà classe in presenza e metà classe a distanza, in due segmenti distinti: le criticità organizzative e le criticità didattiche.
Le prime sono talmente evidenti che davvero sembra assurdo doverle ulteriormente sottolineare. Una didattica mista implica, per gli ordini di scuola inferiori, la presenza costante dei genitori accanto ai propri figli. Non si può lasciare un bambino di 6-7-8 anni da solo davanti a un pc neanche per un’ora. Molte famiglie, con entrambi i genitori lavoratori, semplicemente non potranno permetterselo; forse, se saranno fortunate potranno ricorrere a una rete di supporto parentale, altrimenti dovranno pagare una baby-sitter. Ma c’è un altro aspetto fondamentale: la famiglia è chiamata a un ruolo di collaborazione stretta con la scuola, ma non di sostituzione della stessa. Se un genitore deve rimanere per 3-4 ore, quelle che saranno, ad assistere il figlio DURANTE l’orario scolastico, sta di fatto agendo non più come un genitore ma come un assistente scolastico. Non è il suo ruolo, non è la sua funzione, e la sua stessa ambigua presenza – metà genitore, metà indirettamente presenza adulta coinvolta nella lezione – potrebbe generare fenomeni di invasione e intrusività nella didattica lesivi a lungo andare proprio di quel clima di mutuo rispetto e collaborazione che deve invece sussistere tra scuola e famiglia; clima che, però, necessita come condizione fondamentale che le due parti coinvolte restino appunto distinte, interpretando appieno il proprio ruolo, senza dover supplire o surrogare il ruolo l’una dell’altra.
A livello puramente organizzativo, dunque, è una proposta estremamente iniqua e controversa, che rischia di rompere definitivamente il fragile patto che ancora resiste, nonostante tutto, tra le due principali agenzie educative nella vita di un bambino o di un ragazzo: la scuola e la famiglia.
Su questo non aggiungo altro, lo stesso Ministro pare essersi finalmente accorta dell’improponibilità di una simile ipotesi, tanto che dalle ultime interviste rilasciate sembrerebbe esserci stato un passo indietro: la didattica mista sarà proposta solo per i ragazzi più grandi (presumo per la scuola secondaria). Passiamo all’aspetto didattico…
Ecco, sentire docenti e dirigenti sostenere che la Dad, se fatta bene, sia anche più proficua o motivante della presenza in classe, è qualcosa di estremamente disturbante e inquietante.
La Dad è una modalità di gestione dell’attività didattica che può essere pensata e applicata in modo esclusivo solo come risposta emergenziale a una crisi in atto. La Dad non si può sostenere per lunghi periodi e non può certo essere presentata come una risposta programmatica per il futuro. Il motivo è molto semplice: la Dad non è didattica, perché non esiste e non esisterà mai didattica se non in presenza. La Dad non è didattica a distanza ma puramente distanza senza didattica, o se si vuole rimanere fedeli all’acronimo, è Distanza Anti Didattica. Questo è un punto fondamentale, talmente delicato e fondante, che lo lascio spiegare a Massimo Recalcati. Nel suo bel libro “L’ora di lezione – Per un’erotica dell’insegnamento”, Recalcati dibatte proprio l’importanza nell’insegnamento del corpo, della voce, della parola, della relazione, della ritualità. A pag. 126 della mia edizione Einaudi, afferma testualmente: “Pensare di trasmettere il sapere senza passare dalla relazione con chi lo incarna è un’illusione, perché non esiste una didattica se non entro una relazione umana”.
Lo riscrivo, magari così è più chiaro: non esiste una didattica se non entro una relazione umana. Ora possiamo anche articolarlo sotto forma di sillogismo aristotelico: non esiste una didattica se non entro una relazione umana, non esiste una relazione umana se non in presenza, ergo non esiste una didattica se non in presenza.
Sempre Recalcati: “Solo un cognitivismo esasperato può pensare di separare i processi di apprendimento dall’eros che abita da sempre ogni relazione formativa”, dove “eros” è inteso ovviamente nell’accezione di desiderio di sapere, amore per il sapere, che muove e informa di sé l’azione di “contagio e testimonianza” del docente. La Dad non è didattica, proprio perché priva il sapere della sua incarnazione viva; la Dad è la negazione stessa della didattica, perché allontana dal sapere, crea appunto una distanza tra il sapere e il discente, una distanza che non può più essere colmata dal corpo-ponte del docente. Quando si parla di “corpo docente”, a me viene sempre da pensare proprio al corpo, cioè allo scheletro, ai muscoli, al grasso, ai nervi, alla voce, ai silenzi, agli sguardi, ai sorrisi, ai toni e ai volumi, al ritmo, al gesto, all’occupazione ritualistica di uno spazio comune che come un palcoscenico diventa ogni giorno luogo di scambio e creazione continui e imprevedibili. Se la scuola è sopravvissuta a riforme aggressive e sconsiderate è stato proprio grazie a questo corpo; un corpo a volte minuto, piegato e piagato, a volte inadeguato o cedevole, ma spesso invece titanico nel suo sforzo di difendere e trasmettere l’amore per il sapere, per il pensiero, per la libertà e l’indipendenza di una mente viva, ricettiva, lucida e presente al mondo.
Un altro aspetto fondamentale che la Dad nega, e che la squalifica fortemente da un punto di vista didattico, è l’impossibilità di accedere allo spazio fisico dove si compie il rito dell’insegnamento- apprendimento. La scuola non è solo un luogo, la scuola è un mondo. Più ancora, la scuola è un mondo narrativo. Sviluppiamo questo punto.
Penso che siamo tuti d’accordo sul fatto che il grande valore formativo della scuola sia quello di essere una “comunità educante”. Carlo Tullio Argan, nel suo bel libro “Gli italiani in Europa”, si è posto il problema di quali siano gli elementi identificativi posti alla base di un senso di comunità. Citiamo i più importanti ai fini di questa discussione: topos, genos, ethos, epos. Il topos è lo “spazio condiviso”: non c’è senso di comunità senza senso di uno spazio comune, che appartiene al “noi”, che ci identifica, ci accoglie e ci protegge. Il genos è l’insieme delle relazione gerarchiche che si compongono all’interno di quello spazio. L’ethos l’insieme dei valori condivisi che regolano il vivere all’interno di quello spazio. L’epos è la storia che accompagna il muoversi nel tempo di quello spazio. Una classe, un plesso, un istituto non sono solo luoghi fisici; sono mondi narrativi, mondi all’interno dei quali si narra la costruzione quotidiana di una comunità.
La Dad non è scuola, perché nega questo spazio comune e condiviso, questa stessa possibilità di narrazione comune; e lo fa anche nella sua versione mista, nel momento in cui spezza e separa lo spazio condiviso in due: uno reale e uno virtuale. Ancora chiediamo aiuto ad Aristotele: la scuola è una comunità, non c’è comunità senza uno spazio condiviso, ergo la Dad – la negazione stessa di uno spazio condiviso – non è scuola.
Per comprendere questo punto, rimando anche al libro “Slow school – Pedagogia del quotidiano” di Penny Ritscher, e in particolare al capitolo dove si racconta di un progetto di elaborazione di un POF da parte di un gruppo di bambini. Dal POF emergeva proprio questo, il senso della scuola come di una comunità: “Una comunità fatta di persone specifiche, di piccoli riti, di regole e di spazi specifici e molto vissuti (classe, bagno, giardino)”. A maggior conferma, lascio anche la parola a Gianfranco Zavalloni, con qualche estratto dal suo bellissimo libro, “La pedagogia della lumaca”. “Per crescere educativamente bisogna creare relazioni, perdere tempo, comunicare con i gesti, con le parole, con gli sguardi, ascoltare gli umori, gli odori, i sapori, le emozioni, usare le mani, il sorriso, il cuore, il tempo”. E ancora. “Fare esperienze vive, concrete, non virtuali”. Andiamo avanti…
C’è un altro punto che la Dad nega, la possibilità di abitare insieme il tempo, gettando alle ortiche qualsiasi discorso sull’importanza dei tempi dell’apprendimento. Il tempo dell’insegnamento è e deve essere un tempo lungo, diluito, dal corso imprevedibile. Un tempo abitato insieme e plasmato insieme. Un tempo a misura di bambino è un tempo-bambino, un tempo che gioca e improvvisa, non costretto dentro una logica di efficientismo tipicamente adulta. Non può essere un tempo immobile che scorra interminabile davanti a un pc. E’ un tempo libero e contraddittorio, che può camminare lento o al contrario saltellare, mostrarsi lineare o spiraleggiante, con un inizio e una fine o invece essere circolare e infinito. Un tempo della disciplina e della fantasia, della disciplina della fantasia e della fantasia della disciplina. Tutto questo non può avvenire con la Dad, che oltre allo spazio condiviso, nega anche un tempo vissuto con gli altri; ancora peggio la Dad mista, che spezza il tempo in due: un tempo immobile vissuto da soli e un tempo vivo abitato insieme.
C’è infine un ultimo aspetto che mi preme indicare: questo accento così trionfalistico sull’utilizzo delle tecnologie a scuola giunge a chiudere un percorso iniziato anni fa e brillantemente documentato nel libro di Lucio Russo, “Segmenti e bastoncini”.
Solleviamo un attimo lo sguardo dall’immediato, cerchiamo una prospettiva più ampia. Russo scrive: “Le funzioni tradizionali degli insegnanti tendono a essere svuotate da tecnologie didattiche centralizzate e impersonali, grazie a lezioni televisive, ipertesti interattivi e altri prodotti multimediali. Le attuali tecnologie… sono in effetti insuperabili nella comunicazione unidirezionale e acritica caratteristica della nuova scuola per consumatori.”